Primum vivere, gutes Leben, buen vivir  
          contiguità e distanze di parole e di pratiche  
         
      di  Giordana Masotto  
        
        
      Primum  vivere: il concetto e le parole sono apparse la prima volta nel Sottosopra  - Immagina che il lavoro. Nel 2012 sono diventate il titolo di Paestum. 
         
          ABC  des gutes Lebens, (L'ABC della buona vita), è un glossario scritto nel  2013 da nove femministe di lingua tedesca, di cui le più note tra noi sono Ina  Praetorius e Antje Schrupp: una cinquantina di parole per comporre una sintesi  divulgativa del pensiero postpatriarcale che avevamo già avuto modo di  avvicinare in Penelope a Davos. Abbiamo incontrato Ina all'Agorà del 27  gennaio dove abbiamo molto discusso la sua «economia  della nascita» e la sua idea di  reddito di base incondizionato che è controcorrente rispetto a quello che si  sente e si legge su questo obiettivo. 
           
        Buen  vivir o vivir bien è una delle espressioni di riferimento  del mondo delle «economie diverse» come sceglie di chiamarle un libro recente: Davide e  Golia. La primavera delle economie diverse, a cura di Lucia Bertell, Marco  Deriu, Antonia De Vita, Giorgio Gosetti (Jaka Book, 2013). (Spiegazione: diverse vuole entrare in frizione con l'economia dominante; non chiamiamole economie alternative:  alternativo corre in parallelo e non entra in collisione) 
         
        Quali  affinità di pensiero e di pratiche stanno dietro a queste espressioni così  simili? E le distanze, che cosa ci dicono, quali problemi sollevano? 
        Il  filo rosso è la vita. Nessuna meraviglia: più l'economia del mercato ci  colonizza tempi, corpi e immaginario, più diventa impellente ancorarci alla  vita. Decontaminare lo sguardo per capire che cosa è vita. Qui e ora,  con sempre più consapevolezza, le donne possono farsi forti di una  competenza/esperienza che non è identitaria, ma che può diventare preziosamente  visionaria.  
      Nel  mondo delle economie solidali la buona vita diventa spesso buen vivir,  in spagnolo. Non è un caso. Come ci ricordano gli interventi di Antonietta  Potente e Davide Biolghini nel libro citato, il mondo latinoamericano costituisce  un universo simbolico di riferimento particolarmente forte sia dal punto di  vista antropologico - le «cosmologie» di cui parla il testo di Antonietta Potente - che  politico. Infatti, se l'espressione Madre Terra - Pachamama in lingua quechua –  è ben nota, non tutti sanno che il buen vivir e nuove relazioni tra esseri  umani e natura sono recepiti come diritti nelle Costituzioni di Ecuador e  Bolivia, casi unici al mondo. (Nella Costituzione Usa invece c'è il diritto  alla Libertà e alla ricerca della Felicità. Nella nostra c'è il Lavoro. Sarebbe  interessante vedere dove portano oggi queste strade diverse). 
         
        Non  ho qui lo spazio per mettere a confronto l'economia della nascita di Ina  Praetorius con le economie solidali. Noto solo una cosa: entrambe mettono in  discussione l'homo economicus, ma l'origine significante del discorso da  una parte è la madre carnale e il nascere, dall'altra la madre terra. Anche  Praetorius sottolinea la dipendenza dall'aria e dall'acqua, ma mette al centro  il lavoro di cura quasi certamente femminile che rende generativa quella  dipendenza (per i neonati e in misure diverse per tutti). Antonia De Vita  parla, è vero, di «sintonia con il vivente». Ma il lavoro materiale di relazione e accudimento e la  posizione delle donne rispetto a questo, rimangono fuori dal discorso, almeno  in questo libro. Io penso che se si vogliono connettere i discorsi non c'è che  da farlo apertamente: credo che gli spunti ci siano, dal momento che le  pratiche delle economie solidali riguardano materialità come la spesa e il  cibo. Evidentemente che le donne nella storia dell'umanità abbiano qualcosa a  che fare con il cibo e il nutrire rimane indicibile. Basta guardare a  Expò 2015: nutrire il pianeta è raccontato in tutti i modi possibili e  immaginabili tranne che con un focus sul secolare lavoro delle donne. È  sbalorditivo! 
      Davide  e Golia dice però cose interessanti sulle persone che  concretamente si impegnano in questo movimento. Sulle motivazioni. 
        Il  partire da sé e reinventarsi il proprio quotidiano è la spinta fondamentale.  C'è urgenza di mettere in atto comportamenti in linea con nuovi valori (Deriu  li elenca bene). Dunque una presa di coscienza che si deve manifestare in gesti  concreti. Ognuna/o vuole cambiare qui e ora. Quei valori devono esprimersi in nuove  gerarchie: nell'uso del tempo (tempo di vita/tempo di lavoro), nel peso del  lavoro, nella sua qualità (ma questo rimane spesso solo un desiderio), nella  cura delle relazioni. I gruppi d'acquisto solidale, che mettono insieme cibo  terra relazioni territorio, sono uno degli sbocchi più frequenti. 
         
        Qui  si presenta un problema che secondo me abbiamo anche nel movimento delle donne:  possiamo cavarcela dicendo che queste pratiche di cambiamento sono già  politica?  
        Tutto  il libro in realtà prende molto a cuore questo problema: le frammentazioni e le  chiusure vengono lucidamente registrate e si cerca di gettare ponti tra la  voglia di cambiare il proprio quotidiano e la necessità di darsi un orizzonte  politico più vasto. Per farlo bisogna costruire discorso con le pratiche. E  quindi le autrici e gli autori si impegnano con passione e ricchezza di spunti  a lavorare sulle narrazioni, a consolidare pensiero dall'esperienza. E lo fanno  mettendo in atto «un'appassionata distanza». Bella immagine per ridefinire il lavoro della ricerca  universitaria da cui nasce il volume. Si mettono a fuoco, ed è un pregio, anche  le distanze che rimangono tra le esigenze individuali, le spinte soggettive e  le risposte praticabili. Soprattutto nel campo fondamentale del lavoro (Giorgio  Gosetti, Deborah Lucchetti). Ma anche della democrazia, del territorio.  
        Il  problema della distanza - che a volte mi appare insuperabile anche nel  movimento delle donne - tra cambiamento del quotidiano e impatto culturale  (sono, siamo comprensibili?) e politico rimane aperto e urgente.  
      Ma  il mondo delle economie diverse pone un altro problema, e non da poco: quello  della sessuazione dei discorsi, che è diverso dal condividerli. Eppure circola  lì una gran quantità di donne. La domanda è semplice: quanto visibili? Non  molto, a cominciare dal titolo del libro: per stare sulla forza simbolica delle  figure evocate, Davide e Golia esprimono una disparità interna al campo  maschile. La Penelope a Davos di Ina Praetorius può non piacere, ma  indubbiamente metteva le cose in chiaro, svelando fin da subito la sua  intenzione politica. 
        Antonia  De Vita nella prefazione rileva con chiarezza sia il limite sia la ricchezza: «Quelli del consumo e della produzione  critica sono mondi pieni di donne che hanno portato spesso, forse al di là  di una esplicita intenzionalità (il corsivo è mio), molti guadagni di  almeno due movimenti che hanno generato nuova soggettività nel secolo scorso:  il movimento femminile e femminista e il movimento ecologista.» E focalizza così questi guadagni: il partire da sé, la  centralità del quotidiano, la ricerca di una nuova sintonia con il vivente che  porta a una pratica di autoformazione continua; sottolinea come questo  cambiamento degli stili di vita porti anche a ripensare le forme della  politica. 
      Insomma  le donne, con la loro soggettività, con le loro competenze, portano guadagni là  dove vanno. Ma raramente questi guadagni sono attribuiti alle donne. Così le  donne non ne traggono vantaggio sul piano simbolico, cioè sostanziale. Perché  questo passaggio avvenga, deve essere nominato con intenzione. Non può restare  sottinteso. Bisogna nominare il pensiero da cui si prende la forza, altrimenti  non c'è vantaggio politico. Bisogna farsi forti della propria parzialità. Ina  Praetorius coglie questa priorità e agisce il conflitto con precisione: è  questo il fatto politico che la rende interessante anche se poi ci si trova a  discutere nel merito. 
        Anche  il gruppo romano del mercoledì con il testo La cura del vivere ha  nominato il pensiero da cui prendere forza. E Letizia Paolozzi con il suo Prenditi  cura (et al. 2013) ne ha fatto un accurato bilancio. Da cui si  deduce però che l'auspicato orizzonte conflittuale in cui collocare la magica  parola cura rimane per ora fuori portata. 
      E  il nostro Primum vivere a che punto sta? Sono andata a rileggermi  l'invito di Paestum 2012:  
  «Molto è  il pensiero delle donne sui temi del lavoro e dell’economia a partire dalla  loro esperienza. Che ha questo di peculiare: hanno portato allo scoperto e  messo in discussione la divisione sessuale del lavoro (quello per il mercato –  pagato – e quello informale ed essenziale di cura e relazione – gratuito); in  più, sanno che la cura non è riducibile solo al lavoro domestico e di  accudimento, ma esprime una responsabilità nelle relazioni umane che riguarda  tutti. 
   
        A partire da questo punto di  vista, e sollecitate anche da una crisi che svela sempre di più l’insensatezza  oltre che l’ingiustizia dei discorsi e delle politiche correnti, possiamo  delineare una prospettiva inedita: quella di liberare tutto il lavoro di  tutte e tutti, ridefinendone priorità, tempi, modi, oggetti, valore/reddito e rimettendo al centro le persone, nella loro vitale, necessaria variabile  interdipendenza lungo tutto l’arco dell’esistenza, e avendo a cuore, con il  pianeta, le persone che verranno (corsivo mio).»  
        Che  cosa ne vogliamo fare di questa luminosa chiarezza? Del pensiero prodotto e  delle parole inventate? Della presa di coscienza di tante e tanti? Come  connettiamo le nostre vite cambiate?  
    Come  rendiamo generativa la forza che ci diamo?  
      
    10-1-2015  |